P….come positivo! L’importanza del pensiero positivo nello sport

Nello sport si alternano momenti di vittoria e di successo a momenti di sconfitta e di difficoltà. Fondamentale è averne consapevolezza in modo da non perdere la stima e la fiducia nelle proprie capacità soprattutto di fronte alle sfide e alle situazioni difficili che la vita propone.

In psicologia dello sport esiste una tecnica, il self-talk, ovvero il dialogo interno che si focalizza su pensieri positivi (incoraggiamenti, brevi istruzioni, parole chiave e frasi stimolanti), da ripetere a se stessi, mentalmente o ad alta voce, al fine di sostituire eventuali pensieri negativi che potrebbero compromettere la performance.

Se uno sportivo vuole ottenere dei buoni risultati deve avere un modo di pensare positivo e dal momento che il self talk è il modo in cui un atleta parla a se stesso, esso è in grado di dirigere le azioni dello sportivo; alla luce di ciò, punto di partenza imprescindibile è individuare obiettivi che siano raggiungibili per l’atleta in modo da accrescerne l’ autostima.

L’autostima è frutto del confronto che lo sportivo fa tra gli obiettivi e le sue abilità: per poter raggiungere un obiettivo bisogna credere profondamente di avere le capacità per riuscirci.  In questo modo si crea un circolo virtuoso per cui l’atleta che ha fiducia nelle proprie abilità, tende a perseverare     nell’ impegno anche quando le cose non stanno andando secondo i progetti, a mostrare entusiasmo e ad assumersi la sua parte di responsabilità se il successo viene a mancare.

Facciamo un esempio.

Un atleta che durante una gara sviluppa pensieri negativi del tipo “sono stanco non arriverò alla fine della gara” oppure  “Non ce la farò mai” rischia di alimentare la così detta “profezia che si autoavvera”. Cioè si metterà mentalmente e fisicamente nelle condizioni di perdere il ritmo e le strategie adeguate a ottenere il massimo da quella competizione. Viceversa un atleta abituato a motivarsi attraverso un dialogo interno positivo del tipo “l’avversario è forte ma ho le risorse per poterlo fronteggiare”, si metterà nelle condizioni psicologiche di gestire la gara nel migliore dei modi possibili.

Praticamente tutto è migliorabile per l’atleta che crede in se stesso. Quest’ultimo vive i momenti di crisi come un’ opportunità: le difficoltà non sono viste come il risultato di un limite personale, ma come una possibilità per individuare le proprie potenzialità e le aree di miglioramento. Al contrario, l’atleta che resta impantanato in uno stato di negatività assoluto, rimane cieco nei confronti dei propri punti di forza, utilizzando così le proprie risorse in maniera inadeguata.

La mente può essere allenata a pensare positivamente e ad avere fiducia nelle proprie capacità.

Ascoltare il proprio dialogo interno vuol dire avere consapevolezza di sé, dei pensieri e del modo in cui essi influenzano le nostre azioni e le nostre scelte. Ogni resistenza, ogni blocco che impediscono il raggiungimento degli obiettivi dell’atleta e/o della squadra va analizzato, compreso e poi trasformato.

La pratica costante di questa tecnica, dal momento che accresce la consapevolezza dello sportivo, permette a quest’ultimo di abbandonare gli automatismi negativi che si innescano durante le gare (e spesso anche in allenamento) e di modificare in modo costruttivo le strategie attuate in occasione di una competizione, rendendole efficaci al fine del risultato finale.

 

 

“Chi ben comincia è già a metà dell’opera” La tecnica del goal setting e le sue potenzialità in campo sportivo

 

 

Settembre per me è sempre stato il mese dei buoni propositi; l’ estate è al tramonto, le ferie sembrano già un ricordo lontano: avere dei progetti in mente per i freddi mesi a venire è doveroso, anzi fondamentale!

Anche nel mondo sportivo settembre è il mese della “partenza”, periodo in cui si definisce il programma della nuova stagione. Non fa una piega! E allora perché qualche volta accade che pur avendo in mente l’obiettivo o la meta che vorremmo raggiungere, non riusciamo nei nostri intenti? Probabilmente non è così facile come sembra.

La psicologia della sport offre un valido aiuto, proponendo una strategia molto efficace: la tecnica del goal setting o formulazione degli obiettivi.

Io uso moltissimo questo strumento con i miei atleti, soprattutto all’inizio della stagione sportiva.

L’ applicazione della tecnica è facile di per sé e se vogliamo anche veloce (non più di un’ora) tuttavia è necessario un lavoro profondo, di grande consapevolezza da parte dell’atleta che in alcuni casi può necessitare di un sostegno  più prolungato da parte dello psicologo per raggiungere quanto stabilito.

Si tratta di una strategia che può essere usata individualmente o in gruppo e preferibilmente con la partecipazione dell’allenatore.  La condivisione degli obiettivi tra l’atleta e tutte le figure significative che lo circondano è di fondamentale importanza poiché spesso accade che la mancata corrispondenza tra gli obiettivi individuati dall’atleta e quelli dell’ allenatore (talvolta anche tra quelli della società) può inficiare l’esito della prestazione.

Anche se l’esperienza di goal setting di ogni sportivo è soggettiva, è possibile dare una definizione generale delle caratteristiche di questa tecnica. Andiamo a vedere di cosa si tratta.

Intanto, Che cos’è un obiettivo? Possiamo definire un obiettivo “ uno scopo, una meta,un  risultato che ci si propone di ottenere (www.garzantilinguistica.it). Solitamente ciò avviene attraverso il ricorso a strategie e individuando un intervallo temporale entro cui vorremmo che l’obiettivo si realizzi.  Il fattore tempo è importantissimo, ragione per cui occorre individuare e definire obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Gli OBIETTIVI A BREVE TERMINE sono quelli che ci prefiggiamo di raggiungere nel giro di pochi mesi, in un tempo molto breve quindi. Sono gli obiettivi su cui focalizziamo la nostra attività all’inizio dell’anno sportivo, permettendoci così una prima valutazione della nostra performance. Si tratta di obiettivi che definiremo di “prestazione o performance” vale a dire quelli che si focalizzano sull’acquisizione o sul perfezionamento di un gesto atletico o di una certa abilità mentale.

GLI OBIETTIVI A MEDIO TERMINE, si riferiscono ai risultati che vorremmo ottenere all’incirca a metà della stagione sportiva (entro 6 mesi). Questi obiettivi mettono a fuoco la direzione verso cui stiamo andando, facendo emergere ciò che serve per andare avanti.

GLI OBIETTIVI A LUNGO TERMINE sono quelli che vorremmo raggiungere attraverso l’intera annata sportiva, offrendoci così una pianificazione generale di quello che sarà il nostro percorso sportivo. Gli obiettivi a lungo termine stimolano in maniera attiva l’atleta, soprattutto se protagonisti sono i più giovani, maggiormente esposti a un’organizzazione serrata dei ritmi di studio (o lavoro) con gli impegni sportivi.

Oltre al fattore tempo, affinché la tecnica del goal setting sia efficace è fondamentale che gli obiettivi:

  • vengano formulati in maniera chiara e precisa e che siano raggiungibili per l’atleta.

Al contrario, obiettivi ambiziosi o mete troppo vaghe possono esporre l’atleta (e il suo staff) a insuccessi e frustrazioni.

  • Siano misurabili: ciò permette di analizzare nei dettagli il risultato ottenuto e di assegnargli un

punteggio (ad esempio su una scala da zero a dieci) al fine di comprendere cosa ha funzionato e cosa, invece, sarà necessario andare a migliorare.

  • Siano espressi in positivo: le ricerche hanno evidenziato che, in alcuni casi, sia inefficace concentrarsi su obiettivi caratterizzati da frasi che contengono il “non” (es. non devo fare errori, non devo compiere movimento, non devo essere così rigido). Solitamente così facendo otteniamo l’esatto contrario di quello che vogliamo.
  • Siano flessibili; infatti, potrebbe capitare che un atleta si accorga di non essere in grado di raggiungere l’obiettivo prestabilito ad esempio per l’insorgere di un infortunio. Per non vanificare gli impegni di un’ intera stagione sportiva, la strategia migliore sarà quella di ridefinire gli obiettivi prefissati per poter essere sempre motivati a dare il massimo per il loro conseguimento.

Tutte queste regole oltre a promuovere il raggiungimento degli obiettivi prefissati permettono di tenere alta la motivazione.

E allora se è vero che “CHI BEN COMINCIA È GIÀ A METÀ DELL’OPERA” che cosa aspettate? Sotto con il goal setting! 

 

 

I bambini? Vanno lodati ma con parsimonia

Chi non ha bisogno di riconoscimenti, scagli la prima pietra!

Tutti ne abbiamo bisogno: noi adulti ma anche (e soprattutto!) i bambini. Si tratta di un bisogno fondamentale per la nostra salute fisica e mentale, esattamente come il bisogno di nutrirsi o di dormire.

L’adulto, genitore, allenatore o insegnante, che attribuisce riconoscimenti positivi potenzia nel bambino  la disponibilità ad ascoltare e ad apprendere. Non solo, comunica fiducia e sicurezza al piccolo rispetto alle sue capacità. Attenzione però: affinché le lodi siano funzionali  allo sviluppo psicologico  di un bambino, devono essere fondate,  riferite cioè ad un fatto reale e concreto. Facciamo un paio di esempi. Esempio uno: “Hai fatto bene a presentare al professore i tuoi dubbi sulla gita. Sei stato davvero sincero e l’insegnante lo ha apprezzato. Esempio due: “Complimenti per la gara che hai disputato, sei stato molto bravo. Era una competizione difficile e ti sei dimostrato determinato fino alla fine nel raggiungimento degli obiettivi che ti eri prefissato. Ti sei impegnato molto quest’anno, organizzandoti diligentemente con la scuola e con gli impegni del tempo libero. Te lo sei meritato”.

In questi casi, il riconoscimento dell’adulto riguarda un’ azione specifica agita dal minore: così facendo il genitore/allenatore sottolinea che quel comportamento è ritenuto positivo e dunque il bambino si sente legittimato e motivato a consolidarlo e a ripeterlo in occasioni successive. Nono solo. Il fatto che sia fatto riferimento all’ impegno impiegato per ottenere il risultato è importante: lavorare duramente per raggiungere un obiettivo è una preziosa spinta motivazionale che va  sicuramente sostenuta e incoraggiata. Spesso il fatto di sforzarsi e di impegnarsi viene vissuto come qualcosa di meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola,  nello sport e in generale nella vita, ogni traguardo da raggiungere si prefigura come una sfida che richiede impegno; per questo motivo, meglio lodare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per apprendere ma soprattutto per andare avanti nel percorso di crescita, con la consapevolezza che si possa sempre migliorare.

Espressioni di questo tipo invece: ”Sei eccezionale!”, “Quanto sei intelligente!”, Come sei brava”, “Sei davvero un campione” sono lodi non riconducibili ad un’ azione ben precisa; il rischio è quello  di produrre una generica “sviolinata”  che ha effetti negativi sullo sviluppo della personalità  del minore e  sulla relazione tra adulto e bambino.

Quando noi adulti diciamo qualcosa a un bambino indirettamente diciamo qualcosa su di lui. Ogni messaggio che gli viene inviato quindi gli comunica cosa pensiamo di lui e gradualmente il piccolo si costruisce un’immagine di come lo percepiamo come persona. Per questo motivo, qualsiasi comunicazione ha un impatto non solo sull’interlocutore ma anche sulla relazione che abbiamo con lui. Ogni volta che parliamo con i più piccoli, bambini ma anche adolescenti,  aggiungiamo un altro pezzo al puzzle che stiamo costruendo insieme.

I più piccoli hanno bisogno della nostra approvazione per diventare adulti. Non dobbiamo privarli dei nostri elogi per quello che hanno fatto se lo hanno fatto con passione e impegno. In questo caso la lode rappresenta un incoraggiamento: quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno.

Valorizzare  il risultato o il talento , non accresce l’autostima, tutt’altro;  in queste situazioni è stato osservato che i bambini  hanno difficoltà a tollerare le frustrazioni legate agli insuccessi che nella vita possono  inevitabilmente presentarsi;  inoltre,  manifestano maggiore insicurezza  di fronte alle difficoltà e sono  tendenzialmente  più resistenti a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli.

Insomma, le lodi servono ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani.

 

L’agonismo fa male?

“L’agonismo fa male?” Ultimamente, questa domanda mi viene posta da tanti genitori. Dietro questo interrogativo molto spesso riscontro paura ma anche una cattiva informazione; così ho pensato di estendere la riflessione nel tentativo di fare chiarezza ma soprattutto di rispondere ai dubbi e alle perplessità che i genitori (e di riflesso i figli) vivono quando il percorso agonistico viene anche solo immaginato.

Negli ultimi anni l’aspetto agonistico dello sport è diventato sempre più rilevante nelle diverse discipline sportive e proposto sempre più precocemente, coinvolgendo bambini e preadolescenti. La “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport” afferma che il bambino ha diritto di divertirsi e a giocare come un bambino. È infatti impossibile pensare un’attività sportiva che prescinda dal gioco. Bisognerebbe anzi parlare sempre di “gioco sportivo” quando si parla dell’infanzia: i bambini lavorano e apprendono divertendosi. Purtroppo indirizzare i più piccoli verso un agonismo precoce fa perdere di vista l’importanza della componente ludica a favore di una specializzazione tecnica che non è per tutti: nella stragrande maggioranza dei casi il risultato che si ottiene è quello di favorire un abbandono precoce. La responsabilità di questo fenomeno è da attribuire sia alle società, il cui prestigio è condizionato dalle vittorie dei propri atleti, sia alle famiglie che hanno sempre maggiori aspettative di affermazione e di fama nei confronti dei figli. Visto in questi termini l’agonismo sembra sinonimo di successo. Proponendo e imponendo ai più giovani modelli irraggiungibili, li si espone a delusioni e umiliazioni, che alimentano insicurezza e scarsa stima di sé e non di rado anche lo sviluppo di disturbi psicologici soprattutto inerenti la sfera ansiosa e a livello psicosomatico. È allora non c’è da meravigliarsi se la risposta da parte dei giovani atleti è quella di lasciare prematuramente lo sport. Non solo, esperienze di questo tipo per molti bambini sono dei veri e propri traumi i cui effetti hanno ripercussioni anche nel loro sviluppo futuro.

Ma siamo sicuri che l’agonismo sia solo questo? Se così fosse, la risposta all’interrogativo posto dai genitori con cui ho parlato non potrebbe essere che affermativa. L’agonismo non è solo vittorie e successo, è un percorso che fa parte del fare sport: si può scegliere di farlo oppure no ma nel momento in cui lo si intraprende bisogna arrivare preparati. Molto spesso le società non danno importanza ad accompagnare e a sostenere le famiglie nel percorso verso l’agonismo; sono loro stesse a proporlo in maniera confusiva e limitante. Per questo sarebbe importante farsi aiutare da uno psicologo che lavora in ambito sportivo attraverso corsi di informazione e formazione.

L’attività agonistica è importante nella crescita di un minore, a patto che sia sostenuta e ben gestita dall’allenatore e dalla società, ma anche dai genitori.

Non bisogna avere fretta di “creare” dei campioni, di mettere i più giovani a competere per affermarsi come i migliori; se il bambino non si diverte in quello che fa, abbandona lo sport. I momenti di confronto sono importanti per la crescita e lo sviluppo della personalità del minore a patto che non siano improntati alla ricerca di un risultato a tutti i costi, quanto piuttosto a permettere di acquisire sicurezza e maggior autostima. Questo perché il bambino piccolo non è ancora in grado di dare il giusto valore alla sconfitta: per il giovane atleta tutto è riconducibile a se stesso e al suo valore personale. Solo quando il bambino sarà capace di associare alla sconfitta un’azione eseguita allora l’agonismo può essere vissuto come nell’adulto. Il vero significato dello sport, soprattutto nei più giovani, deve essere considerato non in funzione della vittoria e di un eventuale record da battere, ma come una condizione formativa in grado di sviluppare al meglio le potenzialità psicofisiche e le relazioni sociali. A questo vanno educati i più piccoli m anche i “più grandi”, allenatori e genitori.

Inevitabilmente l’attività agonistica prevede delle rinunce: invita i più piccoli al massimo impegno, a sviluppare un forte senso del dovere e di responsabilità  e a trascorrere molte ore della giornata ad allenarsi, trascurando attività e interessi normali per la propria età. Questo sacrifico sarà possibile se il piccolo sportivo si allena un in ambiente familiare e accogliente, dove gli adulti di riferimento lo sostengono e lo sanno apprezzare per il suo valore e non in funzione delle vittorie che ottiene. Questo è il fondamento imprescindibile affinché un giovane atleta possa crescere nello sport e con lo sport, trasformando il proprio sacrificio nella spinta motivazionale che lo induce a ricercare il confronto con l’avversario per verificare le proprie capacità e la validità del proprio allenamento.

In questo modo l’agonismo ha realizzato il suo vero obiettivo educativo e formativo.

Buon allenamento a tutti!

 

Allenatori non si nasce, si diventa! Le prime esperienze sul campo: rischi e potenzialità

Molte volte, nella mia attività di formatrice in ambito sportivo, mi sono trovata a tenere lezioni ad aspiranti allenatori. Queste docenze sono per me molto importanti perché permettono di coniugare le mie due grandi passioni: lo sport e la psicologia. Non solo. La mia esperienza di atleta ma anche di tecnico mi consentono di avere un occhio “allenato” nei confronti di tutte quelle situazioni potenzialmente a rischio verso le quali un aspirante istruttore può imbattersi e che dunque necessitano di approfondimento. Andiamo a esaminarle. Come già sottolineato, l’allenatore, insieme ai genitori e agli insegnanti, rappresenta un pilastro fondamentale nell’educazione e nello sviluppo di bambini e ragazzi. Per garantire ciò, l’istruttore deve offrire ai piccoli atleti un contesto dove possono divertirsi. Questo obiettivo può risultare ovvio, quasi scontato, ma di fatto spesso viene dimenticato. Come mai? La prima riflessione che dobbiamo porci è questa: che cosa spinge una persona a decidere di diventare allenatore? Nella stragrande maggioranza dei casi, mi confronto con interlocutori molto giovani, che arrivano a intraprendere il percorso formativo alla fine della loro carriera da atleti, mossi dall’idea di guadagnare qualche soldo continuando a coltivare la loro grande passione.  Fino a qui a tutto bene, anzi la passione è una virtù che rappresenta un ottimo punto di partenza nel mestiere di allenatore. Il problema semmai è un altro: freschi della loro esperienza agonistica, molti istruttori rischiano di impostare l’allenamento su aspetti troppo tecnici, tralasciando il gioco e il divertimento. Quando un bambino arriva a fare uno sport non sappiamo qual è la sua motivazione: se vogliamo che quel piccolo atleta si appassioni e rimanga a praticare la disciplina scelta a lungo, dobbiamo offrirgli un ambiente dove stia bene, dove i suoi bisogni vengano soddisfatti. Il divertimento è senza dubbio il bisogno che accomuna tutti i bambini e, come sottolinea la Carta dei Diritti dell’Infanzia, deve essere assolutamente garantito. Per usare le parole di un grande atleta*“C’è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti”. Questo deve diventare in assoluto il mantra di tutti gli allenatori, di coloro che lavoro con i bambini ma anche di chi si occupa di atleti più adulti: divertirsi è sano e fondamentale a tutte le età. Quando il divertimento non viene garantito, il rischio a cui si espongono i più giovani è l’abbandono sportivo. Gli effetti benefici dell’attività motoria a livello fisico, psicologico e sociale sono oggi abbondantemente dimostrati: allora perché privare i più piccoli di questa possibilità? Quando si parla di minori, la responsabilità del loro benessere è nelle mani degli adulti che sono per loro significativi. Per chi fa sport, l’allenatore è uno di questi. Come si fa dunque a essere dei buoni tecnici e quindi a garantire un ambiente idoneo alla crescita sportiva (e non solo) dei più piccoli? Innanzitutto è opportuno usare un linguaggio semplice, facilmente comprensibile e adatto all’età dei bambini che abbiamo di fronte ma soprattutto è fondamentale servirsi e proporre esempi concreti, far vedere come un esercizio va svolto e dare loro la possibilità di provarlo. Tutti questi accorgimenti mantengono viva l’attenzione, aiutano la memoria e dunque facilitano il processo di apprendimento. Anche variare la presentazione di uno stesso esercizio e supportarne la spiegazione avvalendosi di elementi ludici sono strategie che tengono lontana la noia, incrementano la capacità di concentrazione degli atleti e forniscono un forte impulso motivazionale.

Infine altro accorgimento utile su un piano metodologico è quello di coinvolgere attivamente i giovani atleti nell’allenamento: in che modo? Lasciando loro del tempo per esprimersi liberamente, permettendo che a turno possano scegliere un gioco da fare in gruppo, oppure coinvolgendoli come assistenti, magari nella spiegazione di un esercizio o nel fornire un esempio concreto agli altri. La partecipazione attiva dei più piccoli all’interno del gruppo favorisce lo sviluppo del senso di appartenenza, requisito fondamentale per prevenire l’abbandono sportivo e sostenere la crescita di un atleta all’interno della società; inoltre, promuove lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in se stessi, caratteristiche che sono alla base della salute mentale in età evolutiva e la chiave del benessere psicologico in età adulta.

Per concludere, saper insegnare con efficacia, saper interessare, incuriosire e coinvolgere i propri atleti è una vera arte che non bisogna affatto sottovalutare, anzi! E’ fondamentale coltivarla con amore, impegno e serietà. Buon lavoro!

                                                                                                                                

 

*Pancho Gonzales

AMMALARSI DI SPORT: QUANDO L’ATTIVITA’ FISICA DIVENTA UN’OSSESSIONE

Fino ad oggi, gli articoli pubblicati sul blog hanno esaltato gli innumerevoli benefici dello sport sia su un piano fisico ma anche (e soprattutto!) a livello psicologico e relazionale.

Il fitness fa bene al corpo e alla mente, “mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Può succedere però  che il fare attività fisica si trasformi in un pensiero costante. In questo caso, si parla di dipendenza da sport: l’esercizio fisico prende il sopravvento e diventa prioritario su tutti gli altri settori della vita: il troppo stroppia! 

 

Quali sono i segnali che ci fanno capire che il limite è stato superato?

Se lo sport diventa “troppo”, la mente si polarizza solo e soltanto sull’organizzazione della giornata all’insegna dell’esercizio fisico. Un tale forma mentis comporta l’incapacità di concentrarsi su altre attività, essendo il fitness l’unico pensiero ricorrente. Ne consegue, che lo sport, divenendo un vero e proprio “chiodo fisso”, finisce per anteporsi ad altri settori importanti della vita, come la famiglia, il lavoro, all’interno dei quali possono insorgere delle difficoltà o problematiche che prima non erano presenti.

E visto che questo fenomeno è a tutti gli effetti una dipendenza, non dovremmo meravigliarsi se tra i comportamenti tipici, e dunque di allarme, troviamo proprio quelli di chi ha una dipendenza da sostanze. Tra questi, ad esempio, riscontriamo l’aumento graduale della quantità di esercizio per ottenere benessere (fenomeno della tolleranza); il disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o alla cessazione delle sedute di allenamento, che possono portare ad una vera e propria crisi di astinenza con i suoi sintomi peculiari: in mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonno. Rispetto però alla dipendenza da sostanze, quella da sport spesso non viene riconosciuta socialmente come tale.  Nel   caso   dello   sport   compulsivo   la   dipendenza   che   si   viene   a   creare   è    qualcosa   che   la   stessa   società   reputa   come   salutare   e   positiva.  Questo   rende   ancor   più   difficile   per   la   persona   accorgersi   che   qualcosa   non   va   più   come   prima.

Inoltre, va segnalata la frequente presenza di anoressia e bulimia nervosa associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico, soprattutto nelle donne, anche se i casi che riguardano il sesso maschile sono in aumento

 

Come si interviene?

Alla luce di quanto appena descritto, evidenti sono i meccanismi psicologici che alimentano e sorreggono questo tipo di dipendenza. Ne consegue che l’interruzione della pratica sportiva non rappresenta, di per se stessa, la strada che porta alla guarigione, anzi! Laddove è presente anche un disturbo dell’alimentazione, non è raro infatti riscontrare che il tentativo superficiale di sospensione della dipendenza sportiva possa addirittura aggravare la problematica connessa al controllo del cibo.

Un obiettivo importante sarà proprio quello di ritornare ad un esercizio adeguato dal momento che, come sottolineato più volte un’attività fisica moderata è da considerarsi una sana abitudine. Per raggiungere questo obiettivo, che sembra così semplice e lineare, in realtà vanno ricercate e risolte, le cause psicologiche sottostanti la dipendenza; e molto spesso agire da soli, senza l’aiuto di uno psicologo è davvero difficile. Anche perché, come anticipato sopra, la consapevolezza di avere un problema di dipendenza raramente è presente e quando lo è non è detto che incoraggi il cambiamento. E allora? Oltre alle cause psicologiche è necessario rintracciare le cause relazionali che hanno generato il disturbo. Perché una persona arriva a polarizzare tutta la sua vita nell’esercizio fisico? Quali sono state le esperienze relazionali pregresse che lo hanno portato a investire tutto sull’ attività sportiva fino ad arrivare ad esserne dipendente? Molto spesso chi trova rifugio in una dipendenza patologica è stato vittima di un controllo eccessivo da parte delle figure genitoriali, che ha minato lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé. L’interiorizzazione di vissuti di inadeguatezza accrescono nel bambino e nel futuro adulto la convinzione di non potercela fare da solo e dunque il bisogno di dipendenza. Il dedicarsi in maniera eccessiva ad uno sport risponde a questo bisogno. Non solo, riesce anche ad offrire un appannaggio di indipendenza e l’ illusione di avere il controllo della situazione. Conoscere le dinamiche relazionali che hanno indotto e sostenuto lo sviluppo di una dipendenza è il primo passo per poter cambiare un comportamento disfunzionale e intraprendere la via della guarigione. 

 

 

La riabilitazione di un infortunio è anche psicologica

 

 

Chi pratica sport, sia a livello agonistico che a livello amatoriale, prima o poi può imbattersi in un infortunio. Quest’ultimo rappresenta un evento destabilizzante le cui conseguenze si manifestano non solo a livello fisico ma anche e soprattutto a livello dell’equilibrio emotivo e psicologico. Vediamo cosa succede nello specifico.

Solitamente l’infortunio si presenta nella vita degli atleti senza preavviso: lo sportivo non può fare altro che arrendersi al suo decorso. Razionalmente la situazione è questa anche se praticamente per un atleta questa ”resa” non è affatto facile, anzi! Il fattore tempo per molti può diventare un’ ossessione; infatti, la prima domanda che uno sportivo si pone al momento del trauma è la seguente: “Quando potrò riprendere?”. Interrogativo che molto spesso diventa anche quello della società e dei genitori, quando l’ infortunato è un minore. L’atleta tenta così di gestire il danno subito focalizzandosi su immediate fantasie di ripresa; ma quando arriva la consapevolezza che il tempo di recupero è connesso al trauma subito e darne un’indicazione precisa non è possibile, l’incertezza diventa protagonista. Il non sapere quando sarà possibile tornare ad allenarsi e partecipare alle gare, mette in discussione gli investimenti e gli sforzi fatti fino a quel momento, vanificando gli obiettivi della stagione sportiva. L’atleta vive così un forte smarrimento e spesso anche una grande solitudine, poiché è costretto ad allontanarsi dall’ ambiente sportivo, vissuto come una seconda famiglia.

Non solo. Quando il recupero procede positivamente e il rientro in campo è oramai vicino, il ricordo traumatico dell’evento traumatico può ripresentarsi con forza, portando l’atleta a vivere con preoccupazione e insicurezza l’allenamento. Questa condizione risulta essere molto pericolosa, perché può condurre a nuovi infortuni e in casi più gravi, quando l’ansia diventa ingestibile, spingere l’ atleta ad abbandonare l’attività sportiva.

Si comprende bene quanto i fattori psicologici abbiano un impatto significativo non soltanto sul benessere generale dell’atleta, ma anche sul decorso dell’infortunio. Quest’ultimo, se gestito con superficialità può essere un fattore di rischio per il ritorno alle gare dell’atleta.

L’ intervento dello psicologo dello sport risulta fondamentale quando si presenta un infortunio: la riabilitazione è anche psicologica.

L’atleta infortunato per tornare ad allenarsi con fiducia deve riconquistare la sua identità di sportivo.

Lo psicologo dello sport offre il supporto necessario per mantenere alto il livello di motivazione nei confronti del processo riabilitativo, che spesso è già di per sé faticoso e stressante, promuovendo un atteggiamento mentale positivo e individuando con l’atleta strategie e risorse per affrontare l’infortunio e garantire un  rientro all’attività  sportiva il più sicuro e veloce possibile.

L’importanza del lavoro psicologico è racchiusa in questo aforisma “Guarire è toccare con amore ciò che abbiamo precedentemente toccato con paura”. S. Levine

L’abbandono sportivo: un fenomeno in crescita

L’abbandono sportivo o drop-out è un fenomeno che interessa soprattutto i giovani atleti.  La fascia d’età più a rischio è quella tra i 14 e i 15 anni, anche se ricerche recenti mettono in luce che già dopo la scuola primaria, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva.

Perché si abbandona lo sport?

Diversi sono i fattori che possono incidere sul fenomeno del drop-out.

Intanto c’è da dire che l’abbandono sportivo può essere considerato “fisiologico” quando si parla di soggetti in crescita, essendo inevitabile un cambiamento di interessi e priorità nelle loro vite. Sono soprattutto gli impegni scolastici a spingere i ragazzi all’abbandono, anche se in questi casi il soggetto può dirsi comunque soddisfatto della propria esperienza sportiva, riavvicinandosi a una qualche forma di attività fisica non  appena riesce a organizzarsi con lo studio. Può succedere anche che la scelta non sia volontaria ma forzata, come quando un atleta subisce un grave infortunio, quando viene allontanato dalla squadra oppure quando mancano risorse esterne per permettergli di continuare l’attività (ad esempio mezzi finanziari o impianti ed attrezzature idonee). In questi casi il ritorno alla pratica sportiva negli anni futuri non è scontato. Come anticipato in un precedente articolo, quando si parla di drop-out la motivazione riveste un ruolo centrale: i bambini e i ragazzi abbandonano lo sport quando la spinta a fare un’ attività e l’impegno a mantenerla in modo continuativo dipendono da fattori esterni. La scelta di fare uno sport perché lo fa l’amico del cuore o il praticare una disciplina per volontà di un genitore, per un suo riscatto personale, sono spinte troppo deboli affinché la pratica sportiva possa essere mantenuta nel tempo. Anche la pressione eccessiva al successo o la spinta a fare agonismo troppo precocemente da parte della società possono essere fattori inibenti la motivazione, da cui spesso possono nascere forme di sdegno e di risentimento verso l’attività sportiva in generale, allontanando i più giovani da palazzetti e palestre per molti anni.

La conoscenza dei fattori che spingono al drop-out sportivo in età giovanile rappresenta il punto di partenza per favorire la prevenzione del fenomeno; e come sempre accade quando parliamo di bambini e ragazzi la responsabilità di un possibile cambiamento spetta agli adulti di riferimento.

Come riportato dal CISSPAT LAB a livello nazionale le buone prassi per prevenire l’abbandono dell’attività sportiva sono:

  1. La prima regola fondamentale per prevenire l’abbandono dell’attività sportiva è la capacità dei genitori di saper distinguere tra le proprie motivazioni e quelle dei propri figli; lo sport deve essere scelto dai ragazzi, secondo i loro gusti e le loro inclinazioni.
  2. La cultura con cui si affronta l’attività sportiva dovrebbe essere condivisa sia dai genitori che dagli allenatori: il focus non è il risultato, ma l’importanza dello sport come strumento di sviluppo e crescita, oltre che come fonte di divertimento e gratificazione. È solo adottando un comportamento coerente tra questo pensiero e il proprio comportamento che le figure adulte che ruotano intorno allo sport possono trasmettere l’importanza di un certo tipo di cultura sportiva ai ragazzi.
  3. L’importanza di sostenere e incoraggiare i ragazzi, evitando aspettative troppo elevate e pressioni esagerate; utilizzare critiche costruttive ed edificanti, cercando sempre di gratificare i ragazzi per i piccoli successi.
  4. Il ruolo dell’allenatore è molto importante: esso non può limitarsi a insegnare tecniche, in quanto il ruolo educativo è intrinseco al suo lavoro.
  5. Facilitare la creazione di un clima positivo all’interno della squadra, favorendo una gestione costruttiva dei conflitti nel gruppo. E’ importante sviluppare condivisione e la definizione di obiettivi comuni tra i giocatori.

Le buone pratiche appena descritte non dovrebbero rappresentare un punto di arrivo quanto piuttosto un punto di partenza; dovrebbero divenire stimoli su cui riflettere ed essere tradotte in interventi ad hoc. Così si può fare prevenzione e contrastare il fenomeno sul nascere. E qui la figura dello psicologo può fare la differenza: la sua presenza, a fianco dell’allenatore e della squadra, risulta assolutamente fondamentale per intervenire precocemente su eventuali situazioni critiche estirpandole da subito. Saper chiedere aiuto è un atto di coraggio, un’ ammissione di responsabilità doverosa soprattutto nei confronti dei più piccoli.

L’ ansia da gara: alleata o nemica? II PARTE Conoscerla per gestirla

Come dicevamo nel precedente articolo, l’ansia è un’emozione che ci appartiene ed è una nostra alleata, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni.

Alla luce di ciò, non dobbiamo combattere l’ansia per superarla, ma imparare a comprenderla e gestirla.

A livello corporeo quali sono i segnali che ci fanno capire che stiamo vivendo una crisi d’ansia?

Attualmente, le principali alterazioni fisiologiche più documentate sono:

  • respirazione superficiale e periferica molto veloce;
  • aumento della frequenza cardiaca;
  • possibili aritmie;
  • aumento della tensione muscolare;
  • aumento della sudorazione, anche in assenza di movimento fisico o temperature troppo elevate;
  • sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco;
  • vomito e diarrea;
  • irrequietezza;

Questi sono solo alcuni dei possibili sintomi che un atleta può manifestare.

Indipendentemente dalla reazione corporea mostrata, l’impatto sulla performance dello sportivo è deleterio, in quanto si verifica un esaurimento delle sue energie fisiche e mentali.

Negli adulti spesso questi sintomi sono accompagnati da una serie di vissuti spiacevoli, di pensieri, di fantasie la cui percezione aumenta ancor più il disagio e l’apprensione. Inoltre è presente la sensazione di impotenza nell’affrontare ciò che sta accadendo.

Nei bambini invece i vissuti soggettivi di spiacevolezza o di angoscia non sono presenti: è difficile per loro esprimere a parole il turbine emotivo che stanno vivendo. E’ importante, dunque, saper osservare le manifestazioni corporee dei più piccoli e i comportamenti agiti, in modo da imparare a riconoscere il loro disagio.

Inoltre, la sindrome ansiosa è personale: non tutti gli atleti presentano gli stessi sintomi; alcuni manifestano la loro ansia principalmente a livello corporeo, altri invece a livello comportamentale e soggettivo (variabilità interindividuale). In più, lo stesso atleta può manifestare il proprio stato ansioso in modo diverso, ad esempio in competizioni differenti (variabilità intraindividuale).

Queste informazioni sono utili ai fini dell’intervento: non esiste una strategia che funzioni sempre, per qualsiasi persona, e in qualsiasi situazione. E sempre a proposito dell’intervento, non dobbiamo assolutamente dimenticarci, come sottolineavo all’inizio, che l’ansia non è una malattia e dunque non va curata, soprattutto ricorrendo ai farmaci. Le malattie vanno curate, le emozioni e gli stati emozionali vanno compresi, gestiti e risolti. Soprattutto quando il livello di ansia aumenta, al punto di essere esagerato rispetto alla prestazione, e questa condizione si cronicizza estendendosi a tutte le competizioni disputate e spesso anche alle sedute di allenamento, risulta fondamentale rivolgersi ad un professionista, ad uno psicologo. Quest’ultimo dovrà essere preparato sia rispetto alla gestione delle emozioni ma dovrà anche avere una buona conoscenza dello sport. Non solo, quando protagonisti sono i più giovani, bambini e adolescenti, è utile coinvolgere e lavorare con i genitori e con gli allenatori, l’unione fa la forza!

Quando l’ansia da prestazione viene risolta, i risultati positivi non si osservano solo a livello della performance sportiva ma a livello più generale si inizia “naturalmente” a vivere meglio.

L’ansia come molte emozioni dolorose è un invito all’azione, a cambiare un comportamento disfunzionale, o a cambiare un’interpretazione non corretta. Quindi non bisogna negare questa emozione ma bisogna agire e quando necessario farsi aiutare da un esperto.

 

Essere genitori sportivi…missione possibile! intervista su La Nazione di giovedì 3 Maggio 2018

Essere genitori sportivi è una missione possibile ma soprattutto doverosa nei confronti dei più piccoli. Episodi come quello di Levane, in cui il padre picchia l’allenatore perchè il figlio non gioca, non devono accadere; per i bambini sono dei veri e propri traumi e un inno alla violenza. La buona notizia però c’è: lavorando con gli adulti, con i genitori e con lo staff tecnico, queste situazioni si possono prevenire.

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